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Rejoicing the Hands

Sentireascoltare | by Edoardo Bridda and Stefano Solventi

In Italian

Se Me Oh My poteva sembrare (era?) uno sparare a casaccio (all'impazzata) i proiettili vaganti (o vaghi, fate voi) del proprio instabile arsenale, con Rejoicing In The Hands il buon Devendra - coadiuvato dal mentore Michael Gira - prende la mira, oh, se la prende. Ed è già una grande notizia, un fatto tutt'altro che scontato.

Vogliamo dire, abbiamo a che fare - finalmente - con sedici canzoni fatte e compiute, finite e rifinite (concedendo qualcosa all'approssimazione nella quasi garrula Todo Los Dolores ), per quanto talora rapidissime, folk-blues che spuntano dal buio come lampi di lama ( There Was Sun ) o sguardi insidiosi ( Dogs They Make Up The Dark ) per farvi subito ritorno.

Sedici colpi battuti alla porta del Mistero Americano o meglio di ciò che ne rimane, per scoprire che - oh, sì - ne rimane. Cuore di tenebra fatto di vetro e carne in cui innocenza e morale, intimismo e fatalismo, purezza e perversione continuano ad agitarsi dimenticati, ma vivi, incompatibili con il codice dei media, ma non per questo assenti, semmai dispersi, dissimulati, diluiti, attivi agenti omeopatici, immutabili nel tessuto culturale, cifre nascoste del DNA.

Congiungiamo le mani, preghiamo, sembra voler dire Devendra, sgranando perla dopo perla: Love Me Tender, BBOBBBOBBOBBBOB, Viva Las Vegas, All Shook Up, Hearthbreak Hotel, Blue Moon and Blue Suede Shoes. È il rosario dell’America rurale presleyiana, del Sud che giaceva alle spalle di una rivoluzione che avverrà , di quelle gonne che si accorceranno e quei bacini che ruoteranno pelvici. Gli USA. Non quelli bianchi, grassi e razzisti, pronti a roventar carne nei barbecue, difensori del perimetro e falcia-giardini. No… non il rodeo, non le vacche, non il saloon, il whiskey e i rocks. Piuttosto l’America degli emarginati, dei sognatori, dei predicatori, dei Medicine Man, dei saltimbanchi e dei viaggiatori. Quelli a piedi o sulle rotaie, nel treno merci o nascosti tra le paglie di un truck, in attesa e già arrivati, in corsa e in cammino.
Gente mai esistita di un mondo lento che non c’è più, persone che non hanno mai calpestato questa terra o forse sì, nei nostri più sommersi timori. Per riscoprire di costoro l’essenza, mezzo di contrasto ideale è il recupero delle forme comunitarie in cui usavano manifestarsi. Devendra suona sentendo di sapere, tingendo il presente di ritmi e immagini che sa di aver visto e vissuto. Lo fa attraverso le lenti di folk blues fragranti e tenebrosi (la toccante Will Is My Friend ), contagiati di rag e gospel e boogie. Reverie algide e struggenti, pescate nel liquido nero del proprio sé archetipo.

La post-produzione, in qualche modo, intensifica questo senso di "arcaico vibrante", ravvivando d'archi orientali, gocce di vibrafono e pianoforte le strutture più liriche (si ascolti le non meno che sconvolgenti When The Sun Shone On Vetiver - vertigini desertiche riverendo acidi doorsiani - A Sight To Behold -Jeff Buckley sognato dal Mark Lanegan più oppiaceo - e Poughkeepsie - pazzesco vaudeville tra Berlino, Memphis e Bombay), accendendole di fuoco fatuo, iridescenze gassose, bagliori strascicati di magnesio.

Nota più o meno a margine: qualcosa di simile avviene nel lavoro di debutto delle sorelline CocoRosie (ma su un piano di capricciosa e intrigante intimità ), oppure negli ultimi titoli di Howe Gelb e del protetto M.Ward (ma instaurando una dialettica prettamente musicale con l'oggetto del contendere). Tuttavia, per l’attitudine del Nostro all'obliquità stilistico-mentale-temporale, viene in mente semmai l'ineffabile Vincent Gallo , seppure quest'ultimo decisamente concentrato a rievocare i propri ectoplasmi jazz-prog (o Canterbury, se preferite).

Le melodie di Rejoicing In The Hands sono pagine con poche frasi, però ficcanti, raffiche trasversali, fisionomie di sguincio, ma indimenticabili.
Chitarra e voce per lo più, come si è detto, ma quella voce è uno speculo, la poesia di un hobo ubriaco alla luna, di un cantico apocrifo della Natura, con quel vibrato che gratta la coda a nuovi/antichi significati, il timbro sordido sintonizzato su registri beffardi come un Marc Bolan liofilizzato, impervi come un Tim Buckley senza più centro di gravità , cupi come un Nick Drake devastato dallo spleen (riassume tutto la stringente Insect Eyes ).

Chiude il breve quadretto piano-voce-silenzio di Autumn's Child , che è come un rannicchiarsi nel dolore, chiudendo le palpebre sulla fine di un sogno, il volo breve e indelebile d'una preghiera.

Pochi artisti oggi sembrano in grado di rivelarsi con tanta inquietante/affascinante/fragile/scapestrata/genuina bellezza. ( 8.1/10 )

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